L'Ottocento.

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FRANCESCO DE SANCTIS - VITA E LETTERATURA IN ITALIA DOPO IL 1860 - GLI ULTIMI ROMANTICI: PRATI, ALEARDI, NIEVO

ROMANTICISMO E NATURALISMO IN LIGURIA E IN PIEMONTE - TRADIZIONE E RIVOLUZIONE - L'IDEALISMO VENETO - IL REALISMO IN TOSCANA

GIOSUE' CARDUCCI - SCRITTORI ROMAGNOLI - POETI ROMANI - LA LETTERATURA NAPOLETANA

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CULTURA - LETTERATURA - L'OTTOCENTO

ROMANTICISMO E NATURALISMO IN LIGURIA E IN PIEMONTE

Nella Liguria e nel Piemonte, vale a dire nelle regioni che avevano costituito il nucleo originario del Regno d'Italia, il romanticismo si era preoccupato, col Pellico, col d'Azeglio e con altri, di esortare gli animi all'unità nazionale e di persuadere gli italiani, attraverso la rievocazione della storia sabauda, sulla necessità della supremazia piemontese; era stato perciò più un'arma di battaglia e di polemica che un'ispirazione artistica. Ad unità avvenuta gli scrittori liguro-piemontesi mutarono stile ed argomento. Allarmati per gli screzi che andavano sorgendo tra le varie regioni italiane, vennero osservando con ispirito moraleggiante la vita del tempo e proposero come rimedio la vecchia ricetta della devozione alla patria, alla dinastia, ai sentimenti del buon tempo antico. Il piemontese non smise mai l'abito del moralista, del patrista e del pedagogo, di un pedagogo, si badi, che teneva a correggere gli uomini col sorriso e con la commozione e non col fiero cipiglio, di un pedagogo che s'illudeva di guidare il proprio uditorio ma che in realtà veniva guidato. Un tipico educatore fu EDMONDO DE AMICIS che, per certo suo ondeggiare tra l'ispirazione militare e borghese dei suoi primi libri e quella popolare e socialisteggiante degli ultimi, lasciò pensare ad una evoluzione di motivi se non di forme. Ma quella evoluzione, se pur ci fu, avvenne senza strazio e senza travaglio. Il De Amicis andò sempre alla ricerca dell'argomento e del pubblico e ne fu ricompensato dal non mai sentito favore popolare. I suoi libri di viaggio (La Spagna, L'Olanda, Il Marocco, Sull'Oceano) sparivano in quel tempo dalle biblioteche circolanti, e il Cuore girava nelle scuole e nelle famiglie e La vita militare nelle caserme e Il romanzo di un maestro faceva intenerire gli insegnanti e persino le sue poesie, così ingenue e semplici, commuovevano i giovanetti ginnasiali. Sarebbe facile oggi riesaminare tutti quei libri e notarne ad uno ad uno i gravissimi difetti, e il sentimentalismo di maniera, e la piacevole superficialità, e il pedagogismo impoetico. Ma perché farlo? Tali indagini critiche, che sono utili quando è necessario ricondurre ai giusti limiti scrittori presuntuosi e «montati», non si addicono al De Amicis il quale non si lasciò mai stordire dagli applausi del proprio pubblico e che spesso confessò, scoraggiato, di essere nato più per fare il maestro di scuola in un villaggio che per comporre libri. Per umiliare se stesso scrisse: «Che cosa è questo favore di pubblico? Che cosa prova? Chi non ottiene un po' di questo favore, scrivendo, purché abbia cuore e non offenda alcuna classe della società e segua l'andazzo del tempo, e scriva cose che la maggior parte sentono o pensano o non hanno interesse di negare?» Questa modestia, questo candore, questa sincerità finiscono col riconciliarci con lo scrittore. Dell'opera di Edmondo De Amicis resta ancora quel grande respiro di bontà e di nobiltà che ci faceva sentire nel letterato l'uomo. Egli ebbe il merito di creare in Italia quel genere letterario da cui sorse, poi, la letteratura giornalistica delle corrispondenze di viaggio. Ma, sopratutto, formò l'anima e il carattere delle generazioni dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento. Egli ebbe una funzione educativa intensa; risaldò nei cuori il germe di due grandi affetti: la Madre e la Patria. Col Carducci fu il preparatore spirituale degli italiani che fecero la guerra. De Amicis parlò alla giovinezza, Carducci agli adulti. Da queste due voci di timbro diverso - l'una gentile, l'altra forte - i giovani del tempo attinsero la fede dell'amore, del sacrificio, dell'eroismo. Il piemontese GIUSEPPE GIACOSA, per dolcezza d'animo e mitezza di carattere può essere accostato al De Amicis, del quale fu intimissimo. Né si fermano qui le analogie tra i due scrittori. In entrambi era una eguale intenzione didascalica, una versatilità diretta a secondare i gusti del pubblico, una facilità a mettere su volumi da «Biblioteca amena». L'attività del Giacosa (ove si eccettui un libro di prose ispirate alla Val d'Aosta, Novelle e paesi valdostani, che forse costituisce il meglio dell'opera sua) si svolse quasi esclusivamente nel campo teatrale e procurò allo scrittore una nomea non inferiore a quella che il De Amicis andava cogliendo coi suoi volumi in prosa. I sonori e romantici martelliani della Partita a scacchi, gli endecasillabi ad intonazione verista del Conte Rosso, i problemi psicologici proposti dai Diritti dell'anima, da Come le foglie, da Tristi amori fecero il giro dei teatri italiani suscitando calore di consenso e di simpatia. Ebbe il Giacosa doti di abile manipolatore di motivi respirati nell'aria e di influenze letterarie sicché la sua opera, apparentemente divisa in evocazione di leggende e storie piemontesi (che con un più autentico respiro poetico furono anche tentate da un narratore meritevole di menzione, EDOARDO CALANDRA), in drammi naturalistici alla Becque e in drammi psicologici alla Ibsen, finì col riflettere gli ondeggiamenti e le contrastanti aspirazioni dell'anima borghese del tempo. L'equilibrio tra le varie maniere del Giacosa - la romantica, la naturalistica, l'etico-sociale - viene raggiunto in Come le foglie, storia di una famiglia che si sgretola e si corrompe per effetto della miseria. Si respira in questo dramma, sobrio ed efficacemente delineato, la stessa malinconia che sale da altre storie di famiglie in rovina, dai Malavoglia di Verga, poniamo, o dalle Miserie d' monssù Travet, la fortunata commedia di un altro scrittore piemontese, VITTORIO BERSEZIO. Passando dal campo del racconto e del teatro in quello della poesia si avverte un forte prevalere degli elementi romantici su quelli naturalistici o socialisti e decadentistici. Il mondo dei poeti piemontesi fu dominato dal pessimismo, dall'angoscia, dalla disperazione e si espresse in versi gelidi e chiari, laboriosamente tormentati. Il casalese GIOVANNI CAMERANA è stato talvolta collocato tra gli scapigliati, per le sue relazioni di amicizia col Praga e col Boito. Ma non era in lui l'intento letterario e beffardo dei cantori dell'assenzio. Spirito serio e meditativo, il Camerana scrisse pochi ma limitatissimi versi nei quali foschi paesaggi venivano evocati ad esprimere il mistero della vita, e, dopo avere cercato pace nella natura o nella fede, finì suicida nel 1905. ARTURO GRAF, nato ad Atene da padre tedesco e da madre italiana, ma vissuto quasi sempre in Piemonte, ebbe in comune col Camerana la visione tragica del dolore e della morte e la preoccupazione del labor limae. Nutrito di letture filosofiche e scientifiche oltre che poetiche, inclinò per effetto di esperienze di vita e di influenze libresche ad un disperato pessimismo che assai tardi parve temperarsi per effetto dell'interpretazione dei socialismo come simbolo di redenzione morale. I volumi dei versi del Graf, dalle Danaidi alle Rime della selva lasciano trasparire dal loro desolato grigiore una debole ma nobile luce intellettuale e catartica. Negli scrittori liguro-piemontesi è sempre avvertibile un substrato etico.

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TRADIZIONE E RIVOLUZIONE

La letteratura lombarda del secolo decimonono si propose di frantumare il secolare dominio dell'Arcadia e della Accademia mediante l'introduzione di nuovi spiriti e di nuove forme. Fu essa una letteratura tipicamente antiletteraria che alla gelida prosa dei puristi sostituì una espressione semplice e immediata anche se talora trascurata, e che i frusti motivi arcadici (poesie per nozze, per monacazione, ecc.) collocò definitivamente in soffitta. Il secolo venne proponendo nuovi temi e ispirazioni: l'amor di patria, la santa lotta per il riscatto nazionale, il ritorno agli ideali religiosi, la pacata contemplazione del dolore umano, e poi, dopo il '60 e in conseguenza della crescente industrializzazione della regione lombarda e del fiorire di un proletariato e di una intristita piccola borghesia, la pietà per le classi sociali meno progredite o meno fortunate, la ribellione contro la mostruosa forza del capitale, il ripiegare in una zona solitaria di malinconia o di ebbrezza malata. I motivi del primo romanticismo lombardo si erano composti nella prosa armonica e limpida di un Manzoni, miracoloso equilibrio di estro e di cultura, di modernità e di classicità. Tuttavia - tale è il peso delle tradizioni letterarie e così difficile il rinvenimento di una originalità profonda - proprio dal capolavoro manzoniano aveva origine una nuova tradizione, quella del romanzo storico e del romanzo con venature sentimentali e ironiche. Naturalmente come accade sempre agli imitatori, i manzoniani videro nel loro modello quanto vi era di transeunte e di meccanico. Il Grossi e il Cantù si attardarono in un'analisi storica superficiale per eccesso di patriottismo, il Carcano in un impoetico sentimentaleggiare e il Bini e il Rovani in un gusto capillare dell'umorismo e della macchietta. Ma tutti si lasciarono sfuggire il succo dell'arte manzoniana, quello scavare nella vita degli umili per illuminarla con la pietà e la serena parola. Questa profonda lezione d'arte e di vita fu invece assorbita da taluno degli scrittori lombardi della seconda metà dell'Ottocento, da un De Marchi, ad esempio, e persino da un Praga, che pur non risparmiò contro il vecchio pontefice del romanticismo acerbissimi strali. Accadeva così un fenomeno che solo apparentemente era paradossale: i romanzieri storici alla Manzoni si allontanavano irrimediabilmente dall'arte mentre chi, stanco dei vasti orizzonti e dei grandi ideali del romanticismo si volgeva a guardare la vita di tutti i giorni e le passioni mediocri o confessava, con accenti ora accorati ora spavaldi, la propria decadenza ideale, faceva arte umana e sincera, vale a dire manzoniana. E' questa una prova di più che le definizioni critiche sono sempre da accettare cum grano salis e che romanticismo, realismo, verismo, ecc., sono termini vaghi che acquistano tanti significati diversi quante sono le personalità artistiche che nelle formule imprimono il suggello di un'emozione di vita. Se ad esempio esaminiamo il mondo poetico di un De Marchi, di un Praga, di un Dossi, di un Lucini, vi scorgiamo un fluttuare di elementi romantici e di elementi realistici. Ma in definitiva è il temperamento dell'artista quello che dà respiro; consistenza e timbro all'arte, onde lo stesso metallo rende squilli diversi ed è nel modo della lega il segreto di ogni perfezione. Al Manzoni, come a maestro di vita e di stile, guardò costantemente EMILIO DE MARCHI, il cui cristianesimo non si conclude però con la pace e l'armonia ma con lo strazio e l'angoscia. Era il De Marchi uno scrittore candido e onesto. Per certa sua predilezione per i sentimenti elementari e per il carattere antiletterario e dialettale della sua prosa, fu anche accostato al Verga. E di umili «vinti» è piena l'arte demarchiana, da Demetrio Pianelli, il pover'uomo che tenta invano l'evasione dall'angolo di ombra e di scherno in cui vive prigioniero, ad Arabella, la buona creatura che sacrifica se stessa agli altri. E, come nelle migliori cose del Verga, nel De Marchi l'indagine pedagogica si estrinseca nel paesaggio, in un paesaggio lombardo nebbioso e malinconico. Col Verga il De Marchi ebbe in comune la sorte letteraria. Anch'egli, sul finire del secolo, fu travolto dal trionfo dell'arte dannunziana. A chi allora l'esortò a rinnovare il proprio mondo in senso estetico-decadente lo scrittore rispose bonariamente che il suo mondo era e restava quello della povera gente che stenta nella grigia atmosfera degli uffici pubblici e dei poveri per i quali il problema del pane quotidiano rappresenta l'incubo più tormentoso. La vera poesia non ubbidisce al capriccio della moda chiassosa. Quando non si ha più nulla da dire o non si è ascoltati, il partito più dignitoso è quello di tacere. Pessimista e sentimentale fu anche CARLO DOSSI, la cui arte non ebbe però né la pacata ironia demarchiana né preoccupazioni di problemi etico-sociali. Spirito bizzarro, il Dossi volle contrapporre alla buona prosa lombarda di manzoniano sapore un suo terremotato linguaggio irto di voci dialettali e poetiche. Tuttavia non sta qui la sua importanza di scrittore. Essa è dovuta ad alcune delicate miniature di scene infantili, a talune felici evocazioni della adolescenza e della giovinezza in Vita di Alberto Pisani e a talune descrizioni di paesaggio lombardo. L'ispirazione regionale del Dossi è stata posta in luce nell'Ora topica di Carlo Dossi da un altro bizzarro scrittore, finito miseramente ai primi del secolo ventesimo, GIAMPIETRO LUCINI, che nelle sue opere esalò la nostalgia di una non mai posseduta nobiltà ideale. Col Lucini entriamo in un altro campo dell'antiletteratura lombarda, e idealmente potremmo collegarlo a distanza con quel movimento che prese il nome di «Scapigliatura» e che si propose di reagire al manzonismo e al patriotticume della seconda epoca romantica (che in Lombardia aveva nel Cavallotti un tardo quanto rumoroso epigono) con una poesia audace e realistica, forte e satanica. Ma anche qui le intenzioni degli artisti contarono ben poco. Gli scapigliati furono dei giovani precocemente invecchiati e tarati da un tragico destino. Il Lucini fu dissolto dalla tubercolosi ossea, il Pinchetti e l'Uberti finirono, come il Camerana suicidi, Emilio Praga morì non ancora quarantenne. Fu una macabra scapigliatura di malati e di moribondi. La poesia degli scapigliati oscillò tra i poli della compiaciuta confessione della irrimediabile decadenza spirituale e l'anelito verso il sereno mondo manzoniano degli ideali calati nel reale. All'incertezza dell'ispirazione si accompagnò l'incertezza della forma, sì che l'espressione degli scapigliati fu talora sonante e superficialmente canora (come può osservarsi specialmente nel Boito e nel Pinchetti), mentre talora seppe tradurre un facile impressionismo emotivo in versi umani e semplici. Ci riferiamo qui a talune delle liriche di EMILIO PRAGA. Il Praga fu tra gli scapigliati il più genuino temperamento di poeta. Chi guardi oltre la scorsa del suo satanismo e del suo antimanzonianismo troverà un timbro e un accorato risentimento che formano il lievito morale di una poesia profondamente umana e sentirà la voce viva e commossa di un padre, il tormento di un uomo che non riuscì ad armonizzare le varie corde del proprio mondo affettivo, l'angoscia di uno scrittore che sa di alternare momenti di spontaneità a larghe zone opache, ma vi scorgerà raramente l'insincerità e il dilettantismo.

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L'IDEALISMO VENETO

Mentre in Lombardia gli ultimi romantici e gli scapigliati precorrevano quella disarmonia spirituale che sarà propria delle generazioni del Novecento, la letteratura seguiva nel Veneto altre strade, ben più agevoli e piane. Il carattere costantemente tradizionalista e moderato dell'arte veneta è stato da un critico spiegato col secolare e oculato dominio della Serenissima, che unitamente alla prevalente educazione seminarista nelle scuole, educò gli animi al rispetto delle forme. Comunque sia, rimane accertato che, anche quando gli scrittori veneti vollero essere originalissimi e rivoluzionari non riuscirono mai a liberarsi del tutto delle incrostazioni letterarie, come può osservarsi, per esempio, nel veronese VITTORIO BETTELONI che diede vita, nei volumi In primavera, Nuovi Versi e Crisantemi, ad un mondo poetico romantico e famigliare espresso in forme semplici e tenui, dimessi fino ad arieggiare l'andamento della prosa. Il tentativo era senza dubbio interessante - e vedremo che esso sarà ripreso con ben altra voce poetica dai crepuscolari - ma mancò al Betteloni il dono dell'equilibrio tra l'antico e il moderno, tra la poesia e la prosa, tra il serio e il faceto. Pure, l'anelito del Betteloni ad un rinnovamento delle forme non ebbe seguito. Il maggiore poeta veneto del tempo, il vicentino GIACOMO ZANELLA, fu, per innata predilezione e per peso di studi, un fautore di un nitido ed elegante e tradizionale formalismo. Sacerdote pio e colto, attento alle voci e agli umori del tempo lo Zanella prese ad argomento dei suo canto i progressi scientifici e sociali del secolo, e, più tardi, la crescente miseria delle plebi rurali e la delusione del tanto conclamato progresso. Purtroppo lo Zanella non riuscì a conciliare né il dissidio tra la fede e la scienza, tra l'ossequio al papato e l'amore all'Italia, né quello tra il contenuto e la forma. Vi è una lirica famosissima in cui si può studiare chiaramente il difetto principale dello Zanella, e cioè l'assoluta discordanza tra la serietà e la gravità dell'argomento e la canora superficialità delle strofe, assai tornite e levigate. Alludiamo alla Ode su una conchiglia fossile di cui basterà rileggere, con animo sgombro dalla scolastica ammirazione, i versi più noti per scorgervi l'intonazione assolutamente sbagliata da canzonetta metastasiana. Sui tumuli il piede, nei cieli lo sguardo, all'ombra procede di santo stendardo. per goli reconditi, per vergini lande ardente si spande. Non una frase, non un verso che crei immagini nuove e concrete, che fermi stati d'animo e non atteggiamenti statuari. Meglio lo Zanella riuscì quando si limitò ad esprimere un'arcadica contemplazione della natura nella collana dei sonetti che egli dedicò all'Astichello, il fiumiciattolo che scorreva attorno ad una sua villetta di campagna. «Tu povero Astichel, solo sei vivo, tu che scorrendo e dileguando insegni come tutto nel mondo è fuggitivo». Dallo Zanella ebbe consigli e incoraggiamenti la patavina VITTORIA AGANOR POMPILJ, la cui poesia d'amore non sempre trovò accenti caldi e immediati, dato che la maggiore preoccupazione della scrittrice fu costituita dall'aspirazione ad una letteraria compostezza della frase. Fermamente ancorato alla tradizione fu, nel Veneto, anche il teatro. In questo campo la tradizione non aveva che un nome: Goldoni. E goldoniani furono i due maggiori drammaturghi veneziani, il Selvatico e il Gallina, i quali usarono a preferenza il dialetto. RICCARDO SELVATICO introdusse nella sana comicità d'origine goldoniana una delicatissima vena di poesia. La rappresentazione dei costumi popolari veneti e delle anime primitive e semplici trovò in La bozeta de l'oio e in I recinti da festa accenti umani ed efficacissimi. La sua arte precorre quella di GIACINTO GALLINA, il quale, nutritosi esclusivamente del Goldoni dei Rusteghi, de La casa nova, de Le baruffe chiozzotte, ecc., volle rendere gli aspetti comici e sentimentali della Vita borghese e popolana di Venezia. Una tenue e commossa vena di poesia crepuscolare serpeggia ne La famegia del santolo, ne Il moroso de la nona e in Serrenissima e in tante altre commedie nelle quali il decadere, il trasformarsi e il rinascere dei ceti sociali veneziani sono osservati con occhi lucidi di pianto. Nel campo nella narrativa - (fatto cenno di GEROLAMO ROVETTA, nato a Brescia ma vissuto a lungo nel Veneto, il quale oscillò senza intimo convincimento tra le idealità patriottiche, morali e civili, e un convenzionale realismo) - ci si presenta un grande nome: ANTONIO FOGAZZARO. Vicentino, come lo Zanella, il Fogazzaro ebbe qualche affinità con il cantore della «Conchiglia fossile». Anch'egli, innamorato della fede e rispettoso della scienza, fu, per tutta la vita, tormentato da uno sforzo romantico di conciliazione fra il dramma del pensiero e quello dell'anima, fra il contrasto della ragione e quello della fede, tra l'urto del sentimento e quello della coscienza, tra i moti dell'intelletto e quelli del cuore. Tale sforzo, fallito dal punto di vista filosofico e storicistico, fu artisticamente reso. Si può dire, anzi, che è proprio in questo fallimento il pathos avvivante della tragedia dei personaggi fogazzariani, che, precisamente, in questa mancata conciliazione e nella catarsi purificatrice a cui essi pervengono, quando non soccombono, è l'ictus di una narrativa che non vuole essere fine a se stessa, ma vuol conquistare un contenuto altamente etico, religioso e sociale. Non vi è dubbio che Piccolo mondo antico raggiunga l'equilibrio stabile, di tutti gli elementi creativi del vicentino, ma anche nel Piccolo mondo moderno, nel Santo, nel Mistero del poeta, in Leila, il Fogazzaro ci fa assistere all'evoluzione del suo cosmo ideale e artistico, con alti e bassi ombre e luci, costruzioni e impasti di varia esperienza e vasto ciclo; anche in quei romanzi ci dà paesaggi e creature indimenticabili. Le famose donne del Fogazzaro non sono mai falsate, né snaturate, né letterarie. Sono donne vive di un mondo romantico, espressioni di un tormento e di una crisi sociale che investe la natura femminile, in quella singolare zona in cui le ha poste lo scrittore. Gli eroi dei romanzi fogazzariani, Daniele Cortis, Benedetto Maironi, ecc. non sono, né astratti, né avulsi dalla vita. Essi slittano oltre la realtà, perché sono sognatori in azione e perseguono, in campi di versi, una loro idea praticamente inattuabile. Appaiono, a volte, sfocate queste figure; a volte, la tesi ha il sopravvento; le costruzioni, a volte, mostrano la costura; lo stile non sempre si identifica con la rappresentazione, l'umorismo è limitato alla macchietta. E' vero. Ma di fronte a codeste inefficienze stanno creature fissate nel calco del tempo. Uno scrittore che ha saputo plasmare la sensibile trepida vita di Ombretta, la dolorosa e umana figura di Luisa, e i volti vividissimi di tutta una folla di secondo e terzo piano nella Valsolda e incidere nel dramma spirituale di Pietro e di Franco Maironi e dar colore nuovo e pur vero ai quadri della natura, merita di essere studiato con attenzione e simpatia. Quanto, poi, al Fogazzaro pensatore, che apparve agli occhi dei suoi coetanei così vacillante nel tentativo di conciliare la fede e la scienza, ci sórge, invece, e non del tutto infondato, il sospetto, come da molti segni si avverte, che egli abbia, piuttosto, precorso i tempi.

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IL REALISMO IN TOSCANA

L'arte toscana - e ci riferiamo non solamente alla letteratura del secolo Ottocento, ma anche a quella dei nostri giorni - ha caratteristiche inconfondibili rispetto alle altre letterature regionali. Gli scrittori toscani, anche quando non scavano nel fondo della verità e della sapienza, hanno un loro saporoso modo di esporre e una vivacità drastica nel presentare la vita e nel cogliere, con arguta prontezza, i lati salienti tanto drammatici che comici. E' nella natura del popolo fiorentino, infatti, la sagacia, il frizzo e quel sottile senso caustico che nasce da una grande conoscenza dell'anima umana e delle umane vicissitudini nei riflessi della realtà e del sogno, della verità e delle illusioni di un popolo che ha espresso i più grandi artisti della fantasia e del colore, la cui lingua si nutre quotidianamente dall'esperienza atavica, la cui sensibilità nobilissima trova nella parola le vibrazioni più armoniche e più profonde, senza quello sforzo ricostruttivo, sintattico e vocabolaristico che si richiede da chi è costretto a rifare sul proprio dialetto il congegno dello stile e il tessuto del pensiero. Per questa felicità d'ambiente e di tradizione gli scrittori toscani si trovano certo in vantaggio rispetto agli altri. Essi hanno in casa, sin dalla nascita, quella ricchezza idiomatica e quella concinnità espressiva che costituiscono già in gran parte gli elementi fondamentali e basilari dell'arte narrativa. D'altro canto essi corrono il rischio di congestionare il loro stile e di agghindarlo in modo che la prosa dia alla fine un tono manierato e letterario, anche quando scavano in bassifondi popolari e traggono dalla viva voce delle masse il materiale grezzo delle loro creazioni. La prosa famigliare e semplice, la grazia del dire, la cultura umanistica, costituiscono i pregi della narrativa di FERDINANDO MARTINI. Scrittore piacevole, arguto, enciclopedico e versatile, ricco di spirito e di intelligenza, ii Martini qualche volta seppe andare oltre l'ornato e sereno conversare come può osservarsi nel suo maggior libro, e cioè Nell'Africa Italiana, in cui le pagine evocative e ricostruttive del continente nero sono pervase da un sotterraneo elemento lirico che costituisce l'humus interno della vitalità dell'opera. La cordialità umana e la semplicità dello stile non furono invece sufficienti a dare un valore non transeunte ad altri letterati toscani della seconda metà dell'Ottocento, quali il MAZZONI, il NENCIONI e il CHIARINI. Tutti e tre critici e poeti, colti di letteratura italiana e straniera, quando vollero far poesia, si attardarono in un impressionismo sentimentale, e, quando si volsero alla critica, rimasero impigliati nelle maglie di un metodo che li portava a lodare indiscriminatamente. Di altri letterati toscani è inutile far cenno. Il Guerrini e il Ricci, nella loro gustosa parodia del «Giobbe» rapisardiano ebbero voce profetica quando, rivolgendosi agli accademici e ai poetuncoli fiorentini, sentenziarono: «Tutti cadrete nell'oblio che copre i clamori d'un giorno. Un sol di voi vivrà. Vivrà colui che non stimate giungervi alla caviglia: il più modesto, il migliore fra voi. Vivrà il Fucini.» RENATO FUCINI, o Neri Tanfucio, nacque a Monterotondo Marittimo, nella maremma grossetana. Spirito buono e affettuoso, arguto conversatore, il Fucini, seguendo la corrente del trionfante naturalismo, diede alla sua arte un sano impulso regionale e ritrasse in sapidissimi Sonetti e nei bozzetti de Le Veglie di Neri aspetti e figure della campagna toscana. La sua arte, pur entro i limiti del quadretto e della macchia, riesce a cogliere con realistica evidenza l'elemento paesistico e l'elemento umano. Il Matto delle giuncaie, la strana creatura che vive in una palude, sola con un vecchio cane, le povere famiglie che coll'inverno emigrano dalla montagna, snidate dal rigore della stagione e della fame, e si allontanano nel folto di una bufera di neve, lo spaccapietre che, per ottanta centesimi al giorno, lavora indemoniato sotto la canicola estiva, queste e tante altre figure semplici e selvagge sono descritte con un pathos malinconico e amaro che richiama il grande afflato del mondo verghiano. Ben sintetizzò Renato Serra le caratteristiche dell'arte del Fucini. «Voltandoci indietro, come per salutare, ci vien fatto di rivedere una figura più mezzana (del Verga) cara alla nostra fanciullezza, in cacciatora di fustagno, e con la pipa in bocca, un viso un po' invecchiato, una brunitura di sole e di campagna, e un riflesso deliziosamente toscano, bonario e arguto nel riso e negli occhi sempre vivi, Fucini, che ha scritto delle cosette sentimentali e comuni con una vivacità da macchiaiolo e una limpidezza di artista.»

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27 Lug. 2025 4:22:14 pm

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